
L’invio di personale all’estero: la check list da affrontare per una corretta gestione
La mobilità internazionale dei lavoratori non è certamente una novità, ma anch’essa come tutto nel mondo del lavoro, si è evoluta per esigenze e casistiche. Solo per fare alcuni esempi, nella necessità di attrarre e trattenere i talenti che sono alla ricerca di molto di più che una “semplice” retribuzione, le aziende hanno cominciato a impostare dei programmi di scambio che permettano ai lavoratori che sono attratti da questo tipo di crescita professionale di fare un’esperienza all’estero all’interno di un’altra società del gruppo.
Altro tema dirompente è, poi, quello dello smart working e quindi di un modo di lavoro che non avendo più limiti di luogo e di tempo, potrebbe non avere nemmeno più confini. Sempre più spesso, infatti, accade che i lavoratori chiedano di svolgere la propria attività lavorativa in smart working anche dall’estero, per periodi più o meno brevi, oppure in maniera prolungata magari dividendosi all’interno della settimana i giorni di s.w. all’estero e quelli di presenza in sede.
Oltre, quindi, ai classici esempi di assegnazione temporanea all’estero per volere del datore di lavoro, il fenomeno degli expat ha assunto oggi nuove forme che necessitano comunque di un'attenta disamina al fine di essere gestite correttamente.
L’aspetto contrattuale: quale forma giuridica assume la presenza del lavoratore all’estero?
Per regolare correttamente l’espatrio del lavoratore il primo punto di riflessione deve essere relativo alle modifiche che tale mutamento del luogo di lavoro comportano sul rapporto di lavoro.
Notate bene che il condizionale in questa affermazione è da escludere: se, infatti, un lavoratore cambia il luogo di svolgimento della sua attività lavorativa, ci saranno certamente delle modifiche o degli aggiustamenti da apportare sotto il profilo contrattale.
Ad incidere sulla modalità di gestione dell’aspetto contrattuale possono essere diversi fattori:
l’esigenza per cui il lavoratore si recherà all’estero, e in particolare se tale esigenza sia del datore di lavoro o sia personale del lavoratore;
le concrete modalità di svolgimento dell’attività lavorativa all’estero;
gli obblighi posti dal paese di destinazione per rendere possibile lo svolgimenti di attività lavorative sul suo territorio.
Analizzando i punti di cui sopra si potrà individuare la forma che l’espatrio assumerà e che potrà andare da quelle più classiche, ossia
trasferta,
trasferimento,
distacco,
a quelle magari meno considerate, o più sottovalutate, di
assumere direttamente in loco, eventualmente anche mediante costituzione di un ufficio di rappresentanza per evitare la stabile organizzazione,
sospendere il rapporto di lavoro originario per costituirne uno all’estero,
smart working all’estero.
Per ciascuna di queste tipologie di gestione dell’aspetto contrattuale andranno, quindi, predisposti i relativi documenti contrattuali che possiamo sintetizzare così:
Trasferta : Lettera di trasferta, non necessaria, ma in caso di trasferta all’estero di lunga durata consigliabile
Trasferimento : Lettera di trasferimento
Distacco : Accordo di distacco con il lavoratore e Intercompany agreement tra distaccante e distaccatario
Assunzione in loco : Dimissioni/risoluzione consensuale e Contratto locale
Sospensione del rapporto e assunzione in loco : Lettera di aspettativa non retribuita e Contratto locale
Smart working all’estero : Accordo di smart working con precisazione delle peculiarità derivanti dallo svolgimento dell’attività lavorativa all’estero
La trattativa con il lavoratore: il pacchetto retributivo e le eventuali condizioni di rientro
Quando l’invio all’estero del lavoratore avvenga per esigenze aziendali (escludiamo, quindi, tendenzialmente il caso del lavoratore che richiede di fare s.w. dall’estero) la trattativa sulla composizione del pacchetto retributivo da applicare durante la permanenza all’estero è fondamentale.
I punti principali che dovranno essere tenuti in considerazione sono la compensazione del disagio arrecato al lavoratore e alla sua famiglia se esso si sposta con tutto il nucleo famigliare e l’incentivazione all’espatrio che l’azienda misurerà chiaramente in base all’importanza strategia dell’espatrio di quel lavoratore.
Come ormai in qualsiasi trattativa contrattuale, l’aspetto puramente economico è solamente un di cui del discorso generale, che da sempre in caso di expat ha assunto l’ottica del total reward.
Saranno quindi da valutare sia gli emolumenti economici aggiuntivi, legati al grado di disagio del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa o al costo della vita in tale luogo, sia i riconoscimenti in termini di benefit per il lavoratore e la sua famiglia, come anche il rimborso o la partecipazione dell’azienda alle spese per il trasferimento o ai maggiori oneri previdenziali e fiscali cui il lavoratore può essere soggetto per via della permanenza all’estero.
Inoltre, tema molto importante è quello del rientro del lavoratore che può venire in gioco non solo quando l’assegnazione all’estero è temporanea e quindi si prevede il ritorno del lavoratore, ma anche quando l’assegnazione nasce come definitiva ma si decide di prevedere per il lavoratore una sorta di clausola di salvaguardia qualora qualcosa andasse storto.
In caso di assegnazioni che nascono come temporanee sarà opportuno tenere proprio in considerazione il tempo che il lavoratore trascorrerà all’estero e la possibilità, quindi, che il ruolo da lui ricoperto in azienda al suo ritorno sia ormai stato affidato a qualcun altro. In questo caso, onde evitare rivendicazioni del lavoratore che, si badi bene, al rientro ha diritto a riprendere l’attività lavorativa (quindi ruolo e mansioni) che aveva lasciato, è opportuno precisare cosa accadrà dal punto di vista dell’inquadramento contrattuale e aziendale al lavoratore.
In caso, invece, di assegnazione definitiva all’estero, ad esempio mediante un’assunzione diretta in loco, il lavoratore potrebbe essere maggiormente indotto ad accettare l’interruzione del rapporto di lavoro italiano a fronte di un impegno del datore di lavoro originario a riassumere il lavoratore qualora si verifichino determinate circostanze, come ad esempio la cessazione del rapporto di lavoro estero per motivi non dipendenti da sua grave negligenza.
Diritto dell’immigrazione e comunicazioni preventive
Un breve accenno, non certo per importanza, va anche fatto alle necessarie verifiche da effettuare circa le autorizzazioni, le procedure e i documenti necessari per il lavoratore per poter svolgere attività lavorativa all’estero.
Il tema non è soltanto quello dei visti e dei permessi di soggiorno, che già basterebbe a rendere molto corposa l’analisi, ma anche quello della verifica di eventuali comunicazioni obbligatorie circa la presenza del lavoratore sul territorio del loro stato, da inviare alle autorità straniere.
Senza alcuna pretesa di esaustività, si può brevemente ricordare che se il paese di destinazione del lavoratore è un Paese UE o SEE il principio della libera circolazione dei lavoratori (sancito dall’articolo 45 del TFUE) premette ai cittadini degli Stati aderenti, in possesso di una carta d’identità o di un passaporto in corso di validità, di entrare, soggiornare e lavorare sul territorio degli Stati altri membri. In questi casi, quindi, non sarà necessario visto, né permesso di soggiorno.
L’Unione Europea, però, ha adottato una serie di Direttive (Dir. 96/71/CE e Direttiva 2014/67/UE di attuazione della prima) che prevedono la possibilità per gli Stati membri di obbligare i datori di lavoro a effettuare una comunicazione amministrativa della presenza del lavoratore all’estero, indicando la durata della permanenza, le attività che saranno svolte, il luogo in cui il lavoratore le svolgerà, e non solo.
Ogni Stato membro ha quindi deciso se e come recepire queste indicazioni comunitarie, eventualmente implementando sistemi (per lo più telematici) di invio di queste comunicazioni preventive.
Per intenderci, l’Italia ha dato attuazione alle Direttive comunitarie mediante il D.lgs. 136/2016 e la comunicazione Uni_Distacco_UE che i datori di lavoro stranieri che inviano lavoratori in Italia devono obbligatoriamente fare prima dell’inizio della prestazione lavorativa sul territorio italiano.
Per ogni paese UE, quindi, pur non dovendoci preoccupare dell’aspetto puramente migratorio (visto e permesso di soggiorno) sarà necessario verificare l’obbligatorietà di questa comunicazione e le modalità per effettuarla.
Se, invece, il Paese di destinazione è al di fuori dei confini comunitari, sarà necessario attivarsi per tempo per ottenere il visto e il permesso di soggiorno per il lavoratore. Le procedure sono diverse da paese a paese, ma non sono mai brevi; pertanto attivarsi per tempo e condizionare l’effettivo espatrio (nonché la decorrenza degli emolumenti aggiuntivi ad esso connessi) all’ottenimento dei documenti necessari per l’ingresso e la permanenza all’estero è fondamentale.
Le ricadute previdenziali e fiscali: binari paralleli ma distinti
Il concetto di residenza, il calcolo dei 183 giorni, le retribuzioni convenzionali e il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa: questi sono solo alcuni dei temi che, generalmente, confondono i ragionamenti di chi si accinge a considerare le conseguenze fiscali e previdenziali di un espatrio.
Partiamo da un presupposto: l’analisi di questi aspetti va fatta in maniera separata, tenendo bene a mente che le conclusioni che si raggiungono in ambito previdenziale potrebbero essere diametralmente opposte da quelle che si traggono in ambito fiscale.
Ad esempio: il lavoratore potrà versare contribuzione solo in Italia senza applicazione della retribuzione convenzionale, ma sarà soggetto alla doppia imposizione fiscale, all’estero e in Italia, e in Italia le imposte italiane saranno calcolate sulla retribuzione convenzionale.
In ambito previdenziale a farla da padrone è il principio della territorialità, o lex loci laboris, principio in base al quale si può dare una prima risposta alla domanda “ma dove dovrà essere versata la contribuzione per questo lavoratore espatriato”?
La risposta a questa domanda, applicando il suddetto principio, sarà quindi che il versamento contributivo deve essere fatto nel luogo in cui viene svolta la prestazione lavorativa, quindi all’estero.
Le ricadute di questa applicazione sono evidentemente importanti:
il lavoratore si sgancia dal sistema previdenziale italiano, con possibili ricadute sulla sua posizione pensionistica;
l’azienda deve attivarsi per comprendere come, quindi attraverso chi, e con quali costi, adempiere agli obblighi previdenziali del paese straniero.
A decretare questi principi, ma anche a delinearne le possibili eccezioni, interviene la normativa internazionale ossia:
in ambito UE e SEE, il Regolamento comunitario 883/2004;
in ambito extra UE, le Convenzioni bilaterali in materia di sicurezza sociale.
All’interno di questi documenti potranno rinvenirsi eccezioni al principio della territorialità, quale quella del cd. distacco previdenziale (che, mi raccomando, non va confuso con il distacco giuslavoristico che noi italiani conosciamo ma che la normativa internazionale sostanzialmente ignora) e quindi della possibilità che in deroga al principio della territorialità, al verificarsi di determinate condizioni, il lavoratore possa rimanere agganciato al sistema previdenziale di provenienza.
Quando, però, queste eccezioni o non sono previste, come nel caso dei paesi extra UE non convenzionati con l’Italia, l’obbligo di adempiere al versamento dei contributi previdenziali nel luogo di svolgimento della prestazione lavorativa si affiancherà all’obbligo di continuare la contribuzione anche in Italia, in base alle disposizioni del D.L. 317/1987, generando una doppia imposizione contributiva sul reddito del lavoratore e determinando l’applicazione delle retribuzioni convenzionali quali base imponibile per il calcolo della contribuzione italiana.
L’ambito degli obblighi fiscali, invece, ruota attorno al concetto di residenza ai fini fiscali. Già qui si incontra il primo punto da afferrare: si parla di residenza fiscale e non di residenza anagrafica. Il lavoratore potrà essere iscritto all’anagrafe della popolazione residente a Milano, ma essere in realtà fiscalmente residente in Spagna.
La disamina fondamentale sotto il profilo fiscale, quindi, attiene all’individuazione della residenza fiscale del lavoratore poiché da essa discenderà l’obbligo del versamento delle imposte. Per individuare la residenza fiscale di un soggetto occorrerà affidarsi alla normativa interna (in Italia, l’art. 2 del TUIR, recentissimamente modificato dal D.lgs. 209/2023) e a quella internazionale. Sotto quest’ultimo aspetto moltissimi paesi hanno sottoscritto Convenzioni bilaterali per evitare la doppia imposizione fiscale, la maggior parte redatte sulla base del modello elaborato dall’OCSE. Tali convenzioni, oltre a stabilire i criteri per determinare la residenza ai fini fiscali di un soggetto, prevedono anche alcune eccezioni alla regola generale permettendo in alcuni casi di evitare, appunto, la doppia imposizione fiscale sullo stesso reddito.
Già, perché, anche in ambito fiscale può accadere che il lavoratore sia obbligato al versamento delle imposte in un determinato paese in ragione della sua residenza fiscale, e contemporaneamente sia tenuto a versare imposte anche nel paese di svolgimento dell’attività lavorativa sui redditi ivi prodotti.
La doppia imposizione fiscale ha poi dei palliativi previsti dalla legge, quali l’applicazione della retribuzione convenzionale e il credito d’imposta, s’intente al verificarsi delle condizioni previste dal TUIR. Ma su questo ambito della doppia imposizione fiscale anche il datore di lavoro può giocare un ruolo fondamentale, non solo perché può fornire assistenza al lavoratore per comprendere gli adempimenti fiscali cui sarà soggetto all’estero, ma anche perché attraverso politiche retributive di accompagnamento fiscale potrebbe mitigare l’effetto della doppia imposizione sul reddito del lavoratore.
Opportunità di approfondimento:
Nel corso del webinar "Come gestire correttamente l’invio di personale all'estero" abbiamo approfondito ciascun aspetto di questa checklist come guida per gestire correttamente l’invio di personale all’estero.
Troverai spiegazioni chiare sulle differenze tra trasferta, distacco, trasferimento e le altre possibili modalità di lavoro all’estero individuando la documentazione contrattuale più opportuna caso per caso. Una disamina dei principi e la normativa applicabile relativa alla gestione e al pagamento dei contributi nei paesi interessati dall’espatrio per poter elaborare uno schema di ragionamento univoco da applicare a ogni caso. Abbiamo anche chiarito le regole previste per la tassazione del reddito da lavoro dipendente e gli adempimenti e obblighi a carico del datore di lavoro. Infine, abbiamo messo in luce i principali punti di attenzione legati a visti, permessi e notifiche previsti per l’invio di personale all’estero in paesi UE e Extra-UE al fine di evitare importanti rischi e sanzioni. Per maggiori dettagli visita la pagina dedicata qui.
Il Nostro Punto di Vista
Tanti sono gli aspetti che per necessità, e anche per strategia, devono essere valutati per pianificare in maniera attenta un espatrio lavorativo.
Il tempo è, quindi, certamente nemico di questa analisi che, per quanto possibile, deve essere fatta in maniera ordinata, al fine di verificare tutti i passaggi tenendo in considerazione che essi sono tutti distinti, ma anche che hanno ricadute gli uni sugli altri.
Quando l’esigenza di gestire espatri diviene strutturale potrebbe rivelarsi utile la predisposizione di una policy ad hoc che delinei le linee guida che l’azienda intende seguire nella gestione delle singole casistiche.
Occorre poi ricordarsi anche che potrebbe essere necessaria l’assistenza di un professionista estero che assista l’azienda, il lavoratore o entrambi in alcuni degli adempimenti che possono scaturire, e anche l’individuazione di questi soggetti necessita di tempo.
Il nostro consiglio è quello di gestire il problema spacchettandolo, cercando il più possibile di chiarire un aspetto prima di passare al successivo, consapevoli che poi potrebbe essere necessario anche tornare indietro e modificare gli assunti iniziali perché, lo ripetiamo, ciascun aspetto necessita di un’analisi specifica che tenga in considerazione delle particolari regole applicate (regole contrattuali, immigratorie, previdenziali, fiscali e così via) ma tutti questi aspetti sono comunque parte di un quadro unitario che deve essere composto secondo una logica di legalità, efficienza e sostenibilità, sia per il lavoratore che per l’azienda.
Barbara Peressoni
Head of HR Strategy di WI LEGAL
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